Rifugio Mantova al Vioz 3.535 m. (Italia – Parco Nazionale dello Stelvio)
escursione tecnicamente non difficile ma da non sottovalutare, lunga, faticosa e con un dislivello che supera i mille metri,
la salita al Rifugio Vioz rappresenta una delle mete più ambite e panoramiche di tutto il Trentino
Località di partenza: Pejo Fonti, Val di Sole
Quota di partenza: 2.315 m. (Rifugio Doss dei Gembri)
Quota di arrivo: 3.535 m.
Dislivello: 1.220 m.
Posizione: ai piedi della cresta che conduce al Monte Vioz, su di un piccolo piano roccioso all’interno
del Parco Nazionale dello Stelvio, nella parte più meridionale del gruppo Ortles-Cevedale
Difficoltà: EE [scala livelli delle difficoltà]
Ore: 6h 30’ a/r
Periodo: da fine giugno a metà settembre
Attrezzatura richiesta: classica da trekking
Discesa: per la via di salita
Rifiuti: ecco cosa bisogna sapere prima di abbandonarli
Sono già passati molti anni dalla vacanza che mi sono concesso a Pejo, in Val di Sole.
Un abisso.
Ma questi luoghi, come molti altri, mi sono rimasti nel cuore, tanto che vorrei tornare a camminare su
questi monti al più presto.
Scenari maestosi, ambienti severi e il mondo dell’alta quota lì, a portata di mano.
Credo che un amante della montagna che frequenti questi posti, non possa esimersi dall’includere nel suo carnet di
escursioni la salita al rifugio più alto delle Alpi Orientali, il Mantova al Vioz.
Un simbolo, un riferimento, una sentinella immobile a più di 3.500 metri di quota, sospesa tra le nuvole a guardia
della valle di Pejo, del Ghiacciaio dei Forni e di un vastissimo comprensorio montuoso.
Così come il panorama pazzesco che si gode da lassù, anche la salita risulta tale, tanto che ad ogni passo si stenta
a credere che l’uomo abbia potuto disegnare un percorso simile, tra tutta una serie di punti deboli fra le rocce,
lungo una cresta infinita e aerea.
Anch’io sono stato attirato da questo nido d’aquila come un magnete non appena l’ho visto fare bella mostra di sé
nelle guide e negli opuscoli di trekking locali.
Ricordo la preoccupazione in casa dopo aver espresso la mia volontà di provare a salire.
Anche i miei avevano letto dell’itinerario e ciò ha causato loro qualche notte insonne.
In tutti questi anni sui monti non ho mai abbracciato l’idea di dover salire a tutti i costi, di dover raggiungere per forza
la meta prefissata, sia questa una cima, un rifugio, un bivacco o altro.
Molte volte ho rinunciato perché le difficoltà erano semplicemente superiori alle mie possibilità e credo che questa
valutazione sia la cosa più importante che uno possa fare.
Saper riconoscere i propri limiti è la base dell’andare per monti.
Essere sempre umili e accettare il fatto che a volte la montagna non ci vuole.
Dobbiamo sempre portarle il massimo rispetto, in fondo siamo ospiti e alla fine è sempre la montagna che decide
quando accoglierci tra le braccia.
In tutti quei momenti di difficoltà, non solo tecniche ma anche dovute al meteo o a problemi fisici, non ho mai esitato
a voltare le spalle alla montagna e tornarmene a valle.
Alcune volte è stato un arrivederci, altre un addio.
Nonostante il mio desiderio di arrivare in cima, di riuscire, non ho mai considerato queste come sconfitte,
ma insegnamenti preziosi ed esperienza maturata.
Anzi, è proprio in questi momenti che la montagna mi ha preso per mano e mostrato la corretta via.
È con queste rassicurazioni, ribadite ancora una volta, che in casa gli animi si sono alla fine un po’ tranquillizzati.
La salita al Rifugio Mantova al Vioz non è una semplice passeggiata, ma rientra nella categoria
dell’escursionismo impegnativo.
Rappresenta quel gradino più in là.
Distanza, dislivello, quota e meteo, sono tutte variabili da considerare oltre ovviamente ad una buona preparazione
che nei giorni precedenti ho provveduto ad affinare.
Il giorno della mia partenza, una bella mattinata di sole, avevo già tutto chiaro in mente e, come sempre,
avrei seguito la mia filosofia.
Non rischiare e, nel caso di difficoltà, rinunciare.
Il primo problema che mi sono trovato ad affrontare è stato di tipo logistico.
I libri e le guide non erano così dettagliate, mi sono tuttavia affidato ai consigli di queste ultime, le quali indicavano
in più di sei ore e mezza la salita a piedi con partenza da Pejo.
L’unica era affidarsi quindi agli impianti di Pejo Fonti, almeno per la prima parte, fino al Rifugio Doss dei Gembri.
Da qui rimanevano circa quattro ore di ascesa.
E così eccomi infilato la mattina presto in una piccola coda all’apertura della telecabina.
La prima fermata è il Rifugio Scoiattolo, dove il primo troncone dell’impianto termina, e mi obbliga a spostarmi verso
il secondo collocato più a destra, (oggi, purtroppo, è sorto qui un altro troncone di funivia che porta a Pejo 3000
dove una volta sorgeva l’ex Rifugio Mantova).
Scendo al Rifugio Doss dei Gembri in un turbinio di emozioni e in una specie di cantiere.
Sono in un posto incredibile e già parecchio in alto, a più di 2.500 metri, ma so anche che ora verrà la parte più dura.
Altra gente si sta preparando ed è pronta ad incamminarsi quindi, proprio solo non sarei stato.
Parto tranquillo osservando il suddetto cantiere di fronte al rifugio.
Qui si sta costruendo un lago artificiale per raccogliere l’acqua destinata all’innevamento delle piste d’inverno,
piste che tra qualche anno partiranno da molto più in alto, da Pejo 3000.
L’uomo ha trovato come rovinare definitivamente anche questo angolo di monti.
Poco a monte del rifugio mi dirigo verso la Valle della Mite e seguo la traccia alla mia destra che dopo poco si stacca,
lasciando quindi l’itinerario che sale all’ex Rifugio Mantova, per proseguire lungo un pendio che culminerà con l’arrivo
in cresta nei pressi della cima Vioz.
Passo rasente ad alcune rocce, insistendo su di un comodo sentiero a mezza costa fra i prati.
Poco prima di sbucare sulla cresta, una targhetta segna l’inizio del sentiero del Vioz “Matteo Groaz”, guida alpina
di Cogolo che per primo propose la costruzione del rifugio.
Spostando lo sguardo lungo la frastagliata cresta rocciosa, lassù, molto più in alto e totalmente in ombra
(purtroppo qualche nube è sopraggiunta), intravedo già il punto di arrivo, ovvero il pianoro alla base del Monte Vioz.
A vedere tutta questa distanza è meglio non pensarci e non mollare.
E poi, come disse qualcuno, è il viaggio ciò che conta, non la meta.
Nei pressi dell’uscita in cresta la vista è già sbalorditiva.
Oltre alla Valle di Pejo circondata da un’infinità di cime, mi colpisce a sud la forma inconfondibile della Presanella,
ai cui piedi resistono ancora fortunatamente numerose vedrette.
Lascio sulla destra il sentiero che abbassandosi solca il Filon degli Uomini e si dirige verso la Malga Saline.
A sinistra sto per addentrarmi in un dedalo di rocce, guglie e cuspidi rocciose.
A vedere il tutto dal punto in cui mi trovo, sembra impossibile che in mezzo si possa passare.
Il percorso qui, se vogliamo, è ancora piuttosto comodo.
Il crinale prende a salire in modo più deciso e io, seguendo questo filo di Arianna, inizio a fare lo slalom tra questi torrioni
portandomi ora a sinistra e ora a destra rispetto al filo di cresta.
L’esposizione aumenta di pari passo, ma non vi sono tratti difficili.
In compenso la vista verso il basso è impressionante, a partire dal tratto appena percorso.
Molto più in basso la Valle di Pejo e, all’orizzonte, la Catena del Brenta dove riconosco bene il Grostè, le torri
degli Sfulmini e la Cima Brenta.
Veramente incredibile, già ora mi sembra di volare.
Superata la prima sequenza di rocce e guglie, il sentiero si addolcisce un po’ e prosegue a mezza costa
bordeggiando quello che viene chiamato Dente del Vioz, una parte tranquilla della salita ma faticosa per via della quota che
man mano aumenta.
In un punto di debolezza della montagna, sono spinto ad affacciarmi allo strapiombo che da
direttamente sulla Valle della Mite.
Il vuoto è impressionante e, con coraggio e un po’ le gambe tremanti, riesco anche a fare qualche bella foto.
Ben presto anche il pietrisco e gli ultimi ciuffi d’erba scompaiono, così che mi ritrovo a salire su roccette.
A tenermi compagnia, alla mia destra, il lago artificiale del Careser ai piedi delle cime Pontevecchio e Cavaion.
In linea d’aria non è molta la distanza ma la quota è già notevole.
Sono a quasi 2.700 metri.
Senza rendermene quasi conto, sono di nuovo nel mezzo alle cuspidi di roccia che delimitano a ovest una
piccola conca chiamata Le Vasche.
Questa è forse la parte più tecnica e infida di tutta la salita.
Mi aiuto con le mani in leggera arrampicata seguendo i bolli bianco-rossi sui massi, facendo attenzione ad incastrare
i piedi tra le rocce e all’esposizione.
Mi concedo una piccola sosta per ammirare il ghiacciaio della Presanella in lontananza e il pianoro sottostante
la Punta Taviela, dove alcune gru stanno provvedendo a rimuovere i ruderi del vecchio Rifugio Mantova per fare posto alla
nuova funivia di cui ho parlato prima.
Mi piacerebbe proprio raggiungere anche quel pianoro (Crozi di Taviela), in un’altra escursione, sapendo magari di trovarvi
un bel bivacco tranquillo e isolato, non certo l’enorme struttura a monte di un impianto a fune.
Il terreno in alcuni punti è davvero marcio, cosparso di detriti e sfasciumi che lo rendono una saponetta.
Avanzo con cautela, cercando di non guardare in basso.
Sulle rocce del Brik, a 3.206 metri, incontro due ragazzi giovani coi loro genitori intenti a riposarsi.
Li supero (incredibilmente non mi sento stanco), e continuo per rocce.
Uno di questi ragazzi inizia a seguirmi e, ogni volta che mi fermo per guardarmi intorno o fare foto, lui mi supera
staccandomi di qualche metro.
Probabilmente pensa di essere in una gara di non so cosa.
Non ci faccio caso e continuo.
Quando si ferma lui per aspettare la sua famiglia lo ripasso col il mio moto regolare.
Alle spalle di una guglia mi trovo di fronte un tratto di sentiero stretto e attrezzato con cavo metallico dove
l’esposizione è massima.
Nel mentre, mi sorpassa ancora il ragazzo e si ferma.
Non ci vedo più e lo “metto in riga”, chiedendogli che intenzioni abbia e spiegando che su percorsi del genere
non si scherza né si gioca.
“Se vuoi stare davanti fai pure” spiego, “basta che non continui a correre su e giù urtandomi con lo zaino o fermarti in
punti in cui a malapena ci sta una persona, non siamo in un parco giochi né tantomeno in una gara”.
Incredibilmente vedo che si siede su una roccia col fiatone, mi fa passare e mi chiede scusa.
Da qui in cima non lo incrocerò più.
Mi preparo quindi con calma ad affrontare il tratto più delicato che si può vedere anche in foto, qualche metro
non difficile, ma marcio e franato nel quale mi tengo bene al cavo.
Tornato in zona sicura realizzo che il più è fatto e, riuscirò a vedere questo bel rifugio.
Nemmeno il tempo di dirlo che mi ritrovo ad oltrepassare una piccola forcella e seguire una linea sfasciumata e
instabile, sotto le rocce sul versante della Valle della Mite.
Non c’è cavo qui, ma sempre con molta cautela si procede.
Le foto di queste tratte che scatto da poco più in alto lasciano senza parole.
Non mi sembra vero di essere passato per quei punti.
Paradossalmente, ma come spesso accade, l’ultima parte prima dell’arrivo al rifugio è anche quello più facile,
sebbene sempre esposto.
Il sentiero torna ad essere largo e a salire a tornanti per pietraie con una vista mozzafiato tutto intorno.
Non sto camminando su terreno solido ma direttamente su qualche nuvola, non ci sono parole per descrivere
ciò che si prova.
L’alta montagna nella sua essenza.
Ancora qualche curva, e intravedo la sagoma scura della lamiera del rifugio preceduto da una piccola
cappella e da una croce.
Non realizzo ancora di avercela fatta e probabilmente sto sognando.
Cerco di dirmi qualcosa, ma le parole non mi escono, troncate dall’affannoso respiro in quota e dallo stupore.
Osservando bene l’orizzonte sul quale insiste una leggera coltre di nubi, ne seguo la linea tonda del pianeta.
Una meraviglia simile non è descrivibile, bisogna viverla.
Con le spalle a monte, sulla sinistra si mostra una conca stupenda separata dalle valli Venezia e de la Mare,
nella quale il Lago Careser è circondato da cime quali il Cavaion, Pontevecchio, Careser, Mezzena, Rossa di Saent,
Venezia III e Marmotta, con ai loro piedi la vedretta del Careser.
Molto più distanti, dritte davanti a me, un oceano infinito di cime assomiglianti alle dune di un deserto, che vanno
dalle Dolomiti Venete e Trentine a quelle del Brenta.
Più a destra il gruppo della Presanella, del Presena e dell’Adamello.
C’è da perdersi.
Scatto numerose foto al rifugio, possibilmente cercando di non inquadrare le molte persone che magicamente sono apparse.
Le tempistiche di marcia purtroppo non mi consentono di proseguire oltre, lungo la traccia che sale alle spalle
del rifugio verso il Monte Vioz dove è posizionata la croce.
Peccato, ma in posti così bisogna tornare.
Catturo ancora molte immagini prima di iniziare la discesa, tra cui quella, impressionante, fatta nei pressi della
chiesetta verso il basso.
Un salto e un vuoto mostruosi.
Quasi 1.500 metri più in basso la piana col rifugio da cui sono partito, col lago artificiale in costruzione.
E ora tocca rifare a ritroso tutto il percorso!
La discesa, iniziata nel primo pomeriggio, avviene a tratti in fila indiana, dato che quasi tutti hanno intrapreso
il ritorno a valle.
Un passo dopo l’altro, lento per forza di cose nei punti più delicati, scendo, non potendo fare a meno di voltarmi
ogni tanto e di guardarmi intorno, come se ancora non credessi di volteggiare sulle nuvole.
Mai come questa volta impiego più tempo a scendere di quanto ne abbia impiegato nella salita.
Tornato coi piedi per terra al Doss dei Gembri, non mi resta che riprendere gli impianti fino a Pejo Fonti.
Un’ascesa e una montagna da urlo, che consiglierei senza riserve e per la quale non basterebbe un libro per
imprimerne le emozioni.
Relazione e fotografie di: Daniele Repossi
Note: escursione tecnicamente non difficile ma da non sottovalutare, lunga, faticosa e con un dislivello che
supera i mille metri.
Va affrontata con adeguata preparazione, tenendo conto soprattutto della quota elevata e del clima che può
cambiare repentinamente.
Il vento lungo la cresta che si affronta è quasi sempre una costante.
Per il resto la salita al Rifugio Vioz rappresenta una delle mete più ambite e panoramiche di tutto il Trentino.
Cenni di storia
Nascita e sviluppo del Rifugio Mantova al Vioz
Fu la guida alpina e albergatore di Cogolo Matteo Groaz a proporre per primo la costruzione del Rifugio Mantova.
Appoggiò infatti con dedizione, sacrifici ed entusiasmo la sezione di Halle del Club Alpino austro-tedesco che si era
resa disponibile a finanziare la costruzione della struttura nella parte più meridionale del gruppo dell’Ortles.
In tal modo sarebbero stati facilitati di molto i collegamenti alpinistici tra Ortles, Val di Pejo e Val di Sole.
Groaz, appassionatissimo di montagna, sosteneva anche che in tal modo sarebbe stato più agevole compiere
il giro delle Tredici Cime non abbassandosi mai di quota.
Per lui, la costruzione del rifugio risultava fondamentale.
In un’epoca ben distante da quella in cui viviamo ora e priva di ogni comfort e ritrovato tecnologico, gli uomini
impiegati nella costruzione del rifugio furono provati da sforzi e fatiche immani.
Oltre a questo, andava sommata la costante difficoltà economica e quella tecnica del costruire in quota, in un punto
nel quale il meteo era spesso avverso e si poteva lavorare solo in determinati periodi dell’anno.
La struttura, inaugurata il 2 agosto del 1911 si chiamava in origine Viòz Hutte ed ha visto subito gli albori della guerra.
Già dopo pochi anni, con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, è stata prontamente adibita ad avamposto
militare Imperiale, ed è stata dotata di una teleferica a mano, adibita al trasporto materiali che superava
un dislivello di 2.800 metri.
Al termine del conflitto il rifugio venne consegnato prima al CAI e poi nel 1921 alla SAT che lo ribattezzò con il nome
di “Città di Mantova”, lo stesso del Rifugio SAT ai Crozi di Taviela distrutto da un incendio (e non più ricostruito) durante
la guerra, nel 1916.
Due sono le importanti ristrutturazioni che subì in seguito il rifugio.
Quella del 1971, quando venne rinnovato e ricoperto di lamiera zincata, e quella del 1992 dopo quattro anni di lavori,
quando vennero messe in atto tutti i provvedimenti per ridurre l’impatto ambientale.
Un rifugio all’avanguardia
Oggi, il Rifugio Città di Mantova al Vioz è un gioiello d’alta quota; rappresenta il baluardo più alto di tutte le Alpi Orientali
e viene raggiunto ogni anno da centinaia di alpinisti ed escursionisti.
L’energia elettrica viene prodotta sia da un cogeneratore diesel che si serve del calore in eccesso per produrre acqua
calda e riscaldamento, sia da due inverter e accumulatori che consentono di avere la stessa energia anche quando
il generatore è spento.
Le acque reflue vengono processate tramite grigliatura e inviate a valle in speciali imballaggi.
La sua forma particolare e i materiali con cui è stato ammodernato, legno lamellare e lastre di rame che lo ricoprono,
gli consentono di resistere ai forti venti e alle copiose nevicate.
Per ultimo, l’acqua di fusione viene attinta dal ghiacciaio e stoccata in tre cisterne da 8.000 litri ciascuna adiacenti
la struttura, mentre i rifornimenti avvengono tramite elicottero.
Dispone di 57 posti in stanze da due a nove letti, 70 posti a tavola, ed è inoltre dotato di connessione satellitare che
permette qualsiasi tipo di comunicazione sia per coloro che lavorano in rifugio, che per gli ospiti
(aspetto fondamentale soprattutto per tenere d’occhio il meteo).
Accanto al rifugio sorge anche la chiesetta in muratura più alta d’Europa dedicata alla Vergine Immacolata e
a S. Bernardo di Mentone.
Costruita a perenne ricordo delle numerose vittime di guerra nel 1947, fu benedetta l’8 agosto del 1948.
Relazione di: Daniele Repossi